di Claudio Vignozzi
(Tratto da un storia vera condivisa con l’amico “Secco”)
Anno di prima pubblicazione: 1999
Eddie Aikau (Waimea Bay, Hawaii 1946 – 1978)
Eddie Aikau è nato il 4 Maggio del 1946 in una famiglia profondamente legata alle tradizioni delle isole Hawaii. Suo padre, “The Pops”, portava Eddie e i suoi fratelli alla spiaggia ogni fine settimana. Durante questo incontro con il mare Eddie si avvicinò al Surf da onda, sport che divenne più di ogni altro uno stile di vita: “La sua filosofia”.
Eddie cominciò a cavalcare onde “giganti” già nel 1967. A quell’epoca era un giovane sconosciuto ma il suo modo di ballare sulla sua tavola lo fece diventare un’icona per tutta la comunità di Ohau. Da quel momento non ci fu più nessun dubbio che Eddie sarebbe diventato una leggenda! “Eddie would go!”
La sua incredibile abilità lo fece diventare uno dei più grandi “guardaspiaggia” di Waimea Bay, tratto di costa con le onde più inquietanti del mondo. Eddie salvò in quegli anni così tante vite che fu premiato nel 1971 quale “Lifeguard dell’anno”.
Nel 1978 durante una regata sulle tipiche canoe Hawaiane (Hokule’a), un equipaggio fu sorpreso da un’improvvisa tempesta. Eddie decise di afferrare la sua tavola e di apportare i primi soccorsi all’imbarcazione.
Per l’ultima volta “Eddie sarebbe andato!” mentre l’equipaggio fu ritrovato sano e salvo il giorno dopo.
Il corpo di Eddie non fu mai ritrovato.
Casal Palocco – Roma (Italia)
Tutto cominciò quello strano sabato pomeriggio. Un pomeriggio di settembre, uno di quei sabato pomeriggio che non scorderò tanto facilmente.
Settembre è il mese più affascinanti dell’anno: caldo, non afoso, la gente riprende a lavorare ma senza lo stress dei mesi invernali. La pelle è ancora abbronzata, la mente più riposata. Tutti si sentono ancora un pò in vacanza. Il fine settimana poi si va alla spiaggia e chi vive in un quartiere come il mio ha la fortuna di udire ancora il canto delle cicale e il borbottio nervoso degli annaffiatoi.
L’aria aveva un profumo diverso quel pomeriggio: il vento scuoteva dolcemente le foglie ed i rami degli alberi, sembrava che madre natura volesse avvertire l’arrivo di un importante cambiamento, di una metamorfosi.
A volte uno vive determinate situazioni e si sente totalmente avulso all’ambiente circostante. Questo era il mio stato d’animo. Un alieno in mezzo ad un centinaio di “umanoidi”. Un matrimonio, quello di un caro amico, Alessandro, detto “il Pezza”. Uno di quelli che hanno segnato pagine importanti della mia vita. Lo chiamavamo così perché non aveva mai misura nel tiro di collo piede. Quando si giocava a calcio utilizzando il cancello di casa come porta, tirava sempre delle bordate di collo piede, che regolarmente arrivavano nel giardino del vicino.
Quel giorno si sposava, a 30 anni, ed era il primo degli amici a sposarsi. Secondo me sarebbe stato anche l’ultimo. Seduto su una panchina di un giardino perfettamente curato, in una splendida villa di Casal Palocco, quartiere a metà strada tra l’Eur e il mare di Ostia. Tranquillo, curato, invaso da cani e dai loro padroni annoiati. Insomma uno di quei quartieri che persino alcuni registi italiani avevano scelto come set per i loro film. Ero ubriaco come una cocuzza, vicino a me c’era il Secco, sulla stessa panchina.
“Bevi, su, che dobbiamo festeggiare il Pezza.” Come al solito ero assediato da mille pensieri, le solite riflessioni da matrimonio, tipo: “Stai diventando grande, metti la testa a posto, non vedi che la gente ti guarda? Sei ubriaco, non ti fai schifo? E poi cosa c’entra questa camicia Hawaiana. Sotto il vestito grigio si mette l’azzurro.”
Quasi sei mesi senza andare dal parrucchiere. I capelli li tengo lunghi e scoloriti dall’acqua e dal sale marino. Avevano assunto il peso specifico di un alga. Se mi impegno potrebbero anche diventare più brutti. La pelle abbronzata, direi tostata, almeno una volta all’anno avrei dovuto proteggerla con un po’ di crema idratante.
Insomma l’aspetto poco ideale per un ragazzo di trenta anni. Staranno tutti pensando: “Certo così alto, con quel bel faccino, però così sciupato, chissà cosa dice la madre, poverina!” Un turbine d’idee, di ricordi, di speranze, di sorrisi, mi faceva compagnia in quel pomeriggio, tra un bicchiere di vino ed un tortino al salmone.
Poi arrivò anche la pioggia che a settembre v piatto di pesce e del Secco, anche lui ai limiti del coma etilico.
Un eroe sfigato che si ritrovava al centro di un piccolo quartiere, di quel piccolo mondo, durante uno strano pomeriggio, che oramai si era trasformato in sera. Alcune persone lì presenti sono vecchi amici. Ragazzi con cui avevo condiviso le prime sigarette, le prime pinne con il motorino, le prime “paccate” con le ragazze. Quelle erano determinanti. Aumentavano o diminuivano la fama e l’importanza nel branco.
Anni dopo quasi tutti avevano percorso la sua strada e pochi, come me ed il Secco, erano ancora alla ricerca di una propria collocazione sociale. Questa mancanza di certezze segna il confine tra l’adolescenza e la maturità ed è fonte di discriminazioni da parte di quelle persone che ormai arrivate, mi considerano come un disadattato.
Avevo voglia di scambiare quattro chiacchiere con alcuni dei presenti, ma la distanza che mi separava da questa gente era enorme.
L’unica persona con cui avrei potuto scambiare quattro chiacchiere era la cugina dello sposo, figura immancabile in queste situazioni.
La “cugina” ha sempre un sapore agro-dolce. Troppo grande per considerarti come possibile preda; troppo piccola per pensare di farci una storia. Rimane però un punto di riferimento, che negli anni rimane lì senza mai cambiare. Provai ad allacciarmi le scarpe e con la coda dell’occhio notai che si stava avvicinando.
“Sei Edoardo, vero?”
“Eh?” rispondo io con l’espressione di un malato mentale.
“Non sei il vicino di Ale?”, chiese lei accentuando col suo accento milanese.
“Ah, sì. Ora ricordo. Tu sei la cugina del Pezza, venivi spesso in piscina con noi.” Che fenomeno, erano passati solo un paio di anni.
“Tu non sei cambiato affatto,” dice con un poco di imbarazzo “Però credo che non ricorderai che ti venivo dietro.” Diventai un pezzo di gesso e chiesi se vuole qualcosa da bere. Aveva dei bellissimi occhi verdi, ma dentro quelle pupille si nascondeva una strana luce, magnetica. Torno con due drink in mano e lei era ancora lì ad aspettarmi.
“Che palle questi rinfreschi così lunghi. Se fosse per me sarei altrove.”
“Io pure ne farei a meno,” dissi con tono distaccato, “però sai quanto tuo cugino tenga a me”. Il brutto è che mi stavo auto convincendo: la mia presenza non era poi così necessaria a quella festa. Nessuno si sarebbe accorto se me ne fossi andato via.
“Perché non vieni con me nel parco?” chiese lei.
Ogni volta che si spingeva più in là del dovuto, notavo il formarsi in prossimità della bocca, di una piega della pelle, simile a quella di Jack Nicholson.
“Perché no!”
Mi prese per mano e questo gesto era una dichiarazione di guerra bella e buona, quello che la gente aspettava per potermi giudicare ancor di più. Andai a fare questa benedetta passeggiata nel parco.
“Hai voglia di fumare un po’ d’erba?”
“No, non è il caso grazie. Ho già abbastanza alcool in circolo, preferirei evitare altre figure di merda.”
Vedere questa ragazzina di appena diciannove anni rullare una canna con la naturalezza di un jamaicano, mi lasciò senza parole.
Mi alzai in piedi, chiedendole di aspettare un attimo e ritornai alla festa con l’intenzione di andarmene.
Al momento dei saluti mi ritrovai con in mano una bomboniera rosa piena di foglie secche e confetti. Quei colori, quell’ eccessiva felicità radiata da mille sorrisi e centinaia di abbracci, mi faceva quasi vomitare ma forse, quei conati che salivano da sotto, erano solo il frutto dell’ennesimo bicchiere di vino.
Un tempo orgoglio della mia famiglia, figlio desiderato che faceva il giro del quartiere su di un piedistallo. Tutte le madri delle mie compagne di classe mi volevano per sposo delle rispettive figlie. Non stavo facendo male a nessuno, tranne che alla mia povera vita. Un ragazzo normale, disorientato e un po’ stralunato. Avevo fatto felice mezzo quartiere con i miei risultati scolastici tranne me stesso. Toccare il fondo, significa tirarsi su e reagire: è una sensazione stupenda. E’ come rivenire su dopo essere sbattuti sul fondale da un’onda troppo ripida. In quel momento non avevo la forza, la capacità e sinceramente la voglia di cambiare vita. Me ne andai dalla festa. Guidavo la mia station wagon come se fosse una cinquecento, mi fissavo su qualsiasi cosa: gli alberi, i marciapiede, le strisce pedonali. Tutto attira la mia attenzione, senza una particolare ragione. Ogni tanto si appannava il vetro ma avevo appena cambiato il tergicristallo. Poco dopo ricordai che avevo lasciato li il Secco al ricevimento, ma non avevo nessuna voglia di tornare indietro. Volevo di rimanere in macchina da solo.
Mi capitava spesso. Restare seduto in macchina senza un particolare motivo, magari mentre l’acqua viene giù scrosciante e godo di quella melodia unica, lasciandomi andare a momenti di riflessione e di introspezione. Certo, se adesso avessi avuto vicino una donna sarebbe tutto diverso. Magari ora non sarei qui a raccontarlo.
Era il momento giusto per fare il punto della mia vita, quello che avevo combinato fino a quel giorno, gioie, dolori, vittorie e sconfitte. Era arrivato il momento di diventare grande.
Questa vita da eterno sognatore, passata in giro per il mondo alla ricerca di un equilibrio: Australia, Indonesia, Brasile, Inghilterra: qualsiasi spiaggia che producesse moto ondoso.
Sempre senza fissa dimora, senza un legame duraturo, senza la certezza di un lavoro, di un reddito che mi permettesse di guardare al di là del mio naso arrossato. Le mie storie con donne impossibili, passate a rincorrerle, a farmi rincorrere, a fare discorsi di matrimonio con ognuna di esse, ma poi a scappare dopo aver realizzato quello che stavo facendo.
La vita poi ancora non mi aveva ancora voltato le spalle e avrebbe avuto 1000 motivi per darmi un bel calcio in culo. Più di una volta avevo sputato su occasioni d’oro, su certezze, su vassoi d’argento, su certezze di bronzo con sopra circostanze fantastiche da prendere e spolpare.
Ma niente. Niente di scontato nella mia vita.
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