Sale Grosso è il titolo del primo libro di Alessandro Dini e poichè, oltre ad essere un pioniere del surf in Italia, conosciamo Alessandro almeno da quando Surfcorner.it è nato siamo stati subito molto curiosi di sapere di più di questo nuovo capitolo della sua vita. Questa sera Alessandro presenterà il libro a Viareggio dalle 18.30 presso il bagno Wanda a Marina di Pietrasanta, nel frattempo l’editore ci ha gentilmente concesso in esclusiva la pubblicazione di un estratto del libro che trovate a fondo intervista, mentre Alessandro ha trovato il tempo di scambiare quattro chiacchiere con noi sulla sua nuova avventura.
Dopo tutto quello che hai fatto per il surf in Italia negli ultimi 30 anni, un libro ancora ti mancava nel curriculum…
Mi è sempre piaciuto scrivere. Avevo questa storia in testa da circa 10 anni, ma non avevo tempo per scriverlo e finalmente negli ultimi mesi sono riuscito a elaborarla e darla alla luce. Alla fine non ci è voluto troppo tempo a metterla insieme. Avevo già vari “pezzi” della trama in testa, e quando ho detto “basta, voglio finire questo libro” ho fatto abbastanza in fretta, due o tre mesi.
Perchè hai scelto il genere giallo e a cosa ti sei ispirato per la storia? C’è dentro qualche episodio di vita reale?
Sono sa sempre appassionato di gialli, ma mi sono stufato di leggere storie dove il protagonista è il Ccommissario “x”, l’ispettore “Y”, e così via. Non c’è niente di vissuto, ma il “la” me lo ha dato, anni fa, la notizia che Al Merrick era ammalato di cancro. Ho pensato molto al fatto che chi dedica la vita per creare tavole sempre più performanti, destinate al nostro divertimento sulle onde, rischia di ammalarsi a causa della tossicità dei materiali con cui sono fatte le surfboards moderne. Altra figura fondamentale del libro è un surfer italiano, il primo che riesce a qualificarsi nel circuito professionistico mondiale. Anche questo l’avevo in testa da tempo, diciamo che mi piacerebbe che il personaggio anticipasse i passi del nostro eroe nazionale, Leo Fioravanti.
Chi sono i tuoi autori preferiti del genere e da cui hai eventualmente tratto ispirazione o che hai preso come modelli di riferimento?
Sono molto legato ai classici, in primis Georges Simenon (Il Commissario Maigret) e Rex Stout (Nero Wolf), sarà anche perchè non mi posso dimenticare le splendide serie televisive dove i due personaggi erano rappresentati rispettivamente da Gino Cervi e dall’immenso (in tutti i sensi) Tino Buazzelli. A proposito, uno degli sceneggiatori della serie televisiva del Commissario Maigret era un tal Andrea Camilleri… Le atmosfere lente e rarefatte di un racconto come Il Porto delle Nebbie (Georges Simenon) mi piacciono un sacco.
Anche se è un classico, non mi piace per niente Agatha Christie, i suoi delitti si basano troppo su “botte di culo” tipo l’assassino che si affida ai colpi dell’orologio a pendolo allo scoccare dell’ora, per sparare alla vittima, sperando che i colpi di pistola non siano uditi dagli ospiti della villa, al piano inferiore… Ma il giallo che più mi ha entusiasmato è l’inarrivabile “Il Nome della Rosa” di Umberto Eco.
E’ vero che è già prevista la traduzione in Inglese e la distribuzione all’estero?
Si, proprio in questi giorni ho avuto i primi contatti con un editore straniero che intende tradurlo in inglese e francese e distribuirlo in USA, Australia e Francia.
E’ stato difficile trovare un editore per questo genere di libro giallo a sfondo surf?
Abbastanza, ma mi ha aiutato il mio passato di foto-reporter e di senior editor di Surf Latino: sapere che avevo avuto molti lettori che mi seguivano sulle pagine della rivista, ha fatto la differenza.
Dopo questo libro hai altri progetti legati al surf?
Basta progetti. A 50 suonati voglio vivere la vita day by day, senza stress. Diciamo che se potessi vivere scrivendo storie di surf, mi sentirei sulla luna!
Il tuo libro esce dopo un lungo tuo percorso all’interno del surf italiano. C’è per caso un messaggio che va al di là della semplice storia che narra?
Ricordando a tutti che questo mio primo libro è un giallo, una storia tutto sommato “leggera”, ho voluto toccare alcuni temi che da sempre mi stanno a cuore. Nella trama c’è un forte messaggio ambientalista, perchè credo che noi surfisti dobbiamo essere i primi a proteggere l’ambiente che frequentiamo. Sappiamo bene che tavole e mute sono fatte con materiali e processi di lavorazione piuttosto inquinanti, perciò, più che un messaggio è un’augurio di riuscire a produrre i nostri equipaggiamenti a impatto zero sull’ambiente. Un secondo tema è quello che riguarda l’uso di droghe più o meno leggere, e non solo dai soliti, pazzi surfers… Nel libro ci sono vari temi e messaggi: surf, sesso, droga e rock ‘n roll, ma va preso tutto in maniera ironica, divertita… non prendetemi troppo sul serio! Voglio solo raccontare belle storie, ambientate con credibilità, nel nostro mondo. Oltre ai messaggi ci sono anche delle speranze, come quella di ritornare a essere uno sport “cool”, un pò più di nicchia e supportato dai maggiori brand nella sua crescita. Buona lettura!
Questa sera dalle 18.30 Alessandro Dini vi aspetta al bagno Wanda a Marina di Pietrasanta, viale Roma 13 per la presentazione del libro, edito da Giovane Holden Edizioni.
Qui di seguito potete leggere in anteprima esclusiva l’intero primo capitolo del libro per gentile concessione dell’editore.
SALE GROSSO, CAPITOLO 1
Lunedì 26 settembre 2005 Zona Industriale Soorts (Hossegor, Francia Sud-Occidentale)
Il silenzio, a tratti, era totale. Veniva rotto solamente dal fruscio delle querce che circondavano il rattoppato capannone industriale, agitate a intermittenza dalle forti folate di un vento freddo e umido, che annunciava l’arrivo della prima, grande mareggiata autunnale. In lontananza, l’abbaiare di un cane. Lo shaper australiano aprì il frigorifero situato tra l’ufficio e la stanza imballaggio e spedizioni, e si versò un bicchiere di latte. Non
aveva sete, era solo abitudine.
Quanto ne ho bevuto, inutilmente, pensò con tristezza. Lui, come molti suoi colleghi, ne faceva da sempre un gran consumo cosa che, era credenza, avrebbe dovuto ridurre i dannosi effetti della continua esposizione alle resine e alle polveri. Invece, come già accaduto a due colleghi, quasi coetanei, anche lui si era beccato un cancro al polmone destro. Camminò col bicchiere in mano fino alla porta della sua shaping-room. Accese le lampade al neon situate a circa un metro e venti da terra, più o meno la stessa altezza dei sostegni a Y imbottiti di gomma- piuma, che reggevano l’ultima tavola formata nel pomeriggio e destinata al suo team rider preferito. Le luci radenti servivano per evidenziare la più piccola irregolarità o errore di formatura sul candido pane di schiuma poliuretanica. Amava quelle perfette sculture, apparentemente tutte uguali, che solo l’occhio esperto sapeva apprezzare nei minimi particolari, individuando in ogni curva e in ogni spigolo una specifica funzione. Tastò con entrambe le mani i bordi della tavola, con spostamenti rapidi, da prua fino a poppa: con gli anni, il senso del tatto si era acuito incredibilmente e aveva imparato a percepire le più pic- cole differenze di spessore, fino a pochi decimi di millimetro. Prese un piccolo pialletto a mano e lo passò lungo il rinforzo di legno. Poi, girò più volte la tavola e infine la piazzò di taglio nei sostegni imbottiti per giudicare meglio la curvatura. Sì, era soddisfatto, ed era sicuro che lo sarebbe stato anche Andrea, una volta provata sulle onde. Lui e il surfista italiano erano diventati un binomio perfetto e dopo circa tredici anni di stretta colla- borazione, bastavano poche parole per capirsi e per apportare i necessari cambiamenti a questo o a quel tipo di tavola.
Lesse, appena sopra il longherone di legno, le misure scritte a lapis: For Andrea – 5’10 x 18-1/4 x 2-3/16 – Alex Moss – 15688 – Mission Accomplished. Non riuscì a trattenere una risata amara, pensando a quell’ultimo numero che quantificava le tavole da lui create, con le proprie mani, in circa mezzo secolo di attività. Senza contare tutte quelle terminate sotto suo nome dai suoi più fidati collaboratori e, negli ultimi quindici anni, dalle moderne shaping-machines, macchinari collegati a sofisticati computer sui quali erano stati inseriti, dallo stesso shaper, i vari design delle tavole da formare. Girò la tavola e sulla coperta a poppa guardò una lunga serie di numeri. Di sicuro, sghignazzò immaginandosi la sorpresa del surfista italiano, Andrea si chiederà a cosa diavolo si riferiscono questi strani numeri. Gli avrebbe dato lui stesso una spiegazione a voce quando sarebbe venuto a ritirare le sue tavole per il finale di stagione, alle Hawaii. Li aveva scritti così, senza un motivo preciso, d’impulso. O per scaramanzia… non sapeva di preciso.
Quel giorno Moss aveva pranzato con la sua segretaria, Serena London, e avevano discusso circa l’opportunità di informare i ragazzi del team riguardo alla sua malattia. Lo shaper aveva già capito da qualche tempo che Serena era innamorata dell’italiano e alcune sue parole non fecero che confermare l’intensità dei sentimenti che nutriva per il fascinoso toscano. Inoltre, secondo lei, Andrea lo considerava come un secondo padre e avrebbe sofferto troppo alla notizia che aveva un cancro, che già si era portato via il vero padre, alcuni anni fa. Ovviamente, la decisione spettava solo e unicamente a lui, ma Serena non riteneva necessario dirlo ora ai ragazzi del team, anche perché a volte le aspettative di vita dichiarate dai medici erano clamorosamente smentite dalla voglia di vivere dei pazienti e dalla reazione individuale alle cure.
Girò l’interruttore della luce con un groppo in gola, sapendo che tra qualche mese, un anno, forse due, qualcun altro ne avrebbe fatto la propria shaping bay. Per un minuto rimase immobile, cercando di immaginare chi potesse ricoprire il suo posto lì, in quella piccola stanza, avvolto in quella luce soffusa, immerso in nuvole di polvere bianca… Un turbinio di pensieri e di ricordi gli passava nella testa. Una forte raffica di vento fece cadere sul tetto di lamiera del capannone alcune ghiande, che lo richiamarono alla realtà. Guardò l’orologio: le 00:15 locali, a Tokio le 08:15 del mattino, tra qualche minuto Yu l’avrebbe chiamato. Prima di entrare nel suo ufficio, si fermò di nuovo nella sala imballaggio e prese dalle borse della sua bicicletta una busta di carta. Un improvviso ticchettio sul tetto segnalò l’inizio della pioggia. Non voleva che la bicicletta si bagnasse, così aprì la porta e tirò dentro l’arrugginito ma funzionante mezzo che usava ogni giorno per recarsi da casa alla factory. La villetta su due piani dove abitava da una decina d’anni, non distava neppure un chilometro dal luogo di lavoro, distanza che fino a un paio d’anni prima percorreva tranquillamente a piedi. Ma recentemente, anche questo breve tragitto, lo stancava.
Gli era piaciuta fin dall’inizio l’idea di abitare in quella comoda dimora adagiata sotto una pinetina e situata a nep- pure cinque minuti d’auto dal suo spot preferito di Hossegor, Les Bourdaines. Fin dalla sua prima visita nelle Landes, si era innamorato di questo tratto di costa atlantica, delle onde, delle dune, del veloce variare del clima in poche ore, del quieto, rassicurante stile di vita della gente. Allora, il potenziale surfistico era stato colto solo da un paio di aziende leader nel beach-wear. Erano i primi anni Ottanta quando in Australia si vociferava dell’imminente apertura sulla costa basca francese di una succursale europea da parte dei due colossi del mondiale: la Deeper Tube e la Big Aloha. Fu uno dei primi surfisti del suo paese a fare un viaggio in Francia. Ricordava ancora lo scetticismo degli amici che lo accompagnarono in aeroporto. “Coraggio Alex, male che vada, se le onde fanno schifo potrai sempre scolarti del buon vino e scoparti delle francesine col nasino all’insù,” fu l’ultimo commento dell’amico che lo aveva accompagnato fino al gate d’imbarco. Atterrando a Biarritz nel primo pomeriggio di un caldo ottobre del 1983, vide dal finestrino le lunghe onde che battevano la costa. Riuscì a surfare un’ora scarsa prima del calar del sole. Ci restò cinque anni, prima di tornare per un paio di mesi a Torquay. Poi, la decisione di impiantare la sua shaping-room a Hossegor, sostenuto dalla Big Aloha.
Aveva appena estratto il cavalletto della bici, quando il telefono trillò. Lentamente, si avviò con la busta tra le mani nel suo ufficio, lasciando la porta a scorrimento d’accesso al capannone appena socchiusa.
Protetto dal buio, un uomo con un’attillata tuta felpata e con un passamontagna, aveva osservato attentamente dalle finestre tutti gli spostamenti dello shaper all’interno del capannone. Conosceva bene la disposizione delle stanze e aveva studiato a lungo le mosse da fare, una volta all’interno. Aveva portato con sé alcuni strumenti del mestiere che gli sarebbero serviti per forzare una delle sgangherate finestre nel retro del capannone, ma lo shaper gli aveva reso la vita ancora più facile dimenticando la porta d’entrata semiaperta e così li aveva nascosti in una siepe. Le cimici che aveva facilmente piazzato sia in ufficio sia in casa di Moss, gli avevano permesso di ascoltare le conversazioni che lo shaper aveva scambiato nelle ultime settimane con Yu Kakauzu. Aveva imparato a piazzare le cimici durante uno specifico corso d’addestramento militare nei navy seals. Era così riuscito a sapere che quella sera, lo shaper avrebbe spedito via fax al perito chimico della giapponese Young Global Resins, leader mondiale nella produzione di resine chimiche, la formula per ottenere la prima resina cento per cento eco-compatibile per la laminatura delle tavole da surf. Finalmente! Erano ormai due mesi che stava dietro a questa cosa, ma non era riuscito a impossessarsi della formula, nonostante si fosse introdotto tre volte in casa di Moss e due volte nella factory della Big Aloha Surfboards. Evidentemente, lo shaper aveva trovato un nascondiglio sicuro, ma nell’ultima telefonata ascoltata, Moss aveva promesso a Kakauzu che gliene avrebbe faxata una copia dall’ufficio. Non sarebbe stato un problema impossessarsene con le buone o le cattive, pensò l’uomo col passamontagna, ma preferiva non complicare troppo le cose e mettersi in grossi guai. Avrebbe osservato gli sviluppi sperando che Moss, alla fine della telefonata, mettesse da qualche parte la formula, per poi prenderla indisturbato. In caso contrario, l’avrebbe seguito furtivamente fino a casa, spiando il luogo dove l’avrebbe riposta. Con passi agili e felpati, entrò nel capannone, ben sapendo che dall’ufficio lo shaper non avrebbe potuto vederlo. Moss era già in linea col chimico giapponese.
“…Sì, capisco, Yu, ma non devi temere nulla. Dustin è stato qui ieri e abbiamo trovato un accordo definitivo. Giovedì mattina ho appuntamento col mio avvocato per approvare la bozza di contratto tra me e la Global Resins, ma fino a quel momento preferisco seguire il consiglio del mio legale di non svelare a nessuno la formula.”
Nell’udire queste parole, l’uomo nel buio trasalì. Giovedì… tra soli tre giorni. Il piano poteva sfumare, doveva assolutamente impossessarsi subito della formula o tutti i suoi sogni sarebbero finiti in un castello di sabbia.
“No, Yu, non devi assolutamente preoccuparti, ti assicuro che la formula è davanti a me, ma il mio avvocato mi ha fatto giurare che non l’avrei fatta vedere a nessuno prima della firma del contratto, anzi, dei contratti, sia quello tra me e la Young Global Resins, che tra me e la Big Aloha… Devi pazientare ancora pochi giorni. È vero, hai ragione, Dustin è un gentiluomo… No, no, non devi dire così, non è mancanza di fiducia, è che ho promesso al mio avvocato di seguire tutte le sue indicazioni. In fondo, sai bene che questa resina rivoluzionerà il modo di costruire le tavole da surf, e non vogliamo correre il minimo rischio fino a quando i contratti non verranno firmati… Okay, grazie per la comprensione, Yu, vedrai che entro un paio, al massimo tre settimane potremo rivelare al mondo intero la sensazionale scoperta. E grazie per l’ottimo lavoro fatto per completare l’eco-compatibilità della resina, sei stato davvero grande. A presto e salutami Mister Young.”
Dunque, pensò l’uomo nascosto dietro la porta dell’ufficio, la resina è pronta per l’uso, ma sembra che senza la formula, ancora in mano a Moss, la Young Global Resins sia a tutt’oggi incapace di produrla. Osservò Alex Moss aprire uno dei quattro cassetti a lato della scrivania infilandoci la busta, girare la chiave della serratura, estrarla e infilarsela in tasca. Poi, lo shaper si alzò e si diresse verso la porta.
Attento a non produrre il minimo rumore, l’uomo col passamontagna scattò silenziosamente verso il fondo della stanza imballaggio e spedizioni, adiacente alla sala resinatura. Si acquattò nel buio tenendo sotto controllo gli spostamenti di Moss che impugnò il manubrio della bicicletta, dirigendosi verso la porta d’uscita, dove spense l’interruttore della luce. Sentì girare la chiave nella serratura e poi, il silenzio. Attese un minuto circa affinché gli occhi si abituassero al buio e uscì dalla stanza resinatura, tossendo per liberarsi un po’ dal forte sapore di resina che gli era entrato in gola e sembrava impregnarlo tutto. A tentoni, raggiunse i cassetti di fianco alla scrivania, tutti aperti tranne quello che conteneva la busta. Gli serviva un cacciavite, un attrezzo piatto e robusto, per forzarlo.
Nel frattempo, Moss pedalava verso casa con un dubbio in testa: aveva fatto bene a lasciare la busta in ufficio? Il giorno dopo aveva concesso a tutto il suo staff una giornata libera per sfruttare la solida mareggiata prevista, una delle prime di quell’autunno, quindi nessuno sarebbe entrato in ufficio. Però… fece una rapida inversione e si diresse di nuovo verso la factory. Avrebbe sicuramente dormito meglio se l’avesse rimessa nella cassaforte del garage di casa, dietro il pannello degli attrezzi.
Intanto, il misterioso personaggio era uscito da una finestra sul retro del capannone e aveva recuperato la piccola borsa con gli attrezzi lasciati nella siepe. Rientrato nell’ufficio di Moss, piazzò su una sedia la torcia elettrica, puntata sulla serratura del cassetto chiuso, e iniziò a lavorare con un grosso cacciavite che in breve riuscì a piegare il sottile spessore di ferro del cassetto, che cedette definitivamente. Il chiasso da lui stesso prodotto non gli fece udire il rumore della chiave che girava nella serratura. Rabbrividì quando vide la stanza d’imballaggio e spedizione illuminarsi. Infilò una mano nell’ampio varco ottenuto e cercò freneticamente la busta. La tirò fuori proprio mentre la sagoma di Moss si stagliò sulla porta. Si fece prendere dal panico. Lo shaper accese la luce dell’ufficio ed ebbe appena il tempo di percepire una figura umana che si stava scagliando verso di lui.
L’impatto della testa contro il petto di Moss fu violentissimo, proiettandolo all’indietro. Impreparato, Alex Moss andò a sbattere violentemente la nuca sul pavimento, perdendo immediatamente i sensi e, tre minuti dopo, la vita.
L’uomo recuperò in fretta gli attrezzi. Si chiese se avesse lasciato delle tracce da cancellare… ma no, aveva indossato sempre dei sottili guanti di lattice. Creò un po’ di scompiglio in ufficio per simulare un tentato furto. Prima di lasciare il capannone, tolse le cimici dalla cornetta del telefono, promettendosi di fare subito la stessa cosa con quelle situate nella cornetta del telefono a casa di Moss. Uscendo dall’ufficio, scavalcò il corpo dello shaper.
Una larga macchia di sangue si stava espandendo intorno alla sua testa.
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