Roma – Zona Via Cola di Rienzo
La mia illuminazione lavorativa, arrivata alcuni anni addietro da una idea elaborata con il mio più caro amico, il Secco, era vincente.
Era il risultato della passione di due ragazzi un po’ sognatori e appassionati di surf, che aspiravano ad entrare nel business dell’abbigliamento da surf creando un loro marchio con caratteristiche e valori precisi. “Friends of Aikau” era il nostro marchio.
Aikau era il cognome di un famoso surfista Hawaiano, Eddie, considerato un po’ un eroe buono nell’ambiente surfistico; un mito romantico dei nostri giorni e noi avevamo preso a riferimento lui come modello ispiratore della nostra linea di pensiero.
Aikau era prima di tutto un grande guardia spiaggia, uno di quelli che percorreva quasi cinquanta metri a piedi sul fondo dell’oceano, tenuto in basso da uno scoglio coperto di corallo; era anche un surfista affermato di onde enormi. Ma di onde realmente enormi, di quelle onde nelle quali oltre ad avere una tecnica sopraffina è necessario avere muscoli ben allenati, un animo da Kamikaze e due coglioni enormi.
Lui era tutto ciò, figlio di surfisti e di Big Wave rider; quindi senza scelta alcuna aveva continuato la tradizione di famiglia. Aveva anche una giovane moglie, che gli aveva donato un figlio. Al posto dei primi passi questa povera creatura mosse le prime bracciate a Pipeline, lo spot più terribile del mondo. Un onda rompi collo, dove i migliori surfer del pianeta danno prova del loro coraggio tutto l’anno. Eddie cominciò a insegnare tutti i segreti di quel posto a suo figlio.
Con i suoi colleghi guarda spiaggia era solito utilizzare il figlioletto come un pallone da rugby: diceva che volare lanciato da qualcheduno lo avrebbe reso uomo da Pipemaster, la competizione che ogni anno si svolgeva a Pipeline.
Un giorno nello spot di Waimea, un posto solo i più forti possono surfare, e dove solo per poter entrare in acqua devi essere campione di nuoto, lui era li’ come suo solito a fare del buon surf. Sul promontorio di Waimea si alzava quel giorno un’onda sui cinque metri: roba da spazzare via tutto quello che aveva davanti. Come sempre Eddie, era pronto a vigilare che tutti fossero al sicuro, il suo vizio professionale.
Prendeva qualche onda, poi seduto sulla tavola, controllava che qualche ragazzino del posto non si facesse male; erano momenti di sintonia totale con la natura, quest’uomo di colore era il simbolo di tale unione.
Lo stesso giorno era presente in acqua suo cugino: Titus. Si chiamavano l’onda fischiando e facendo dei segnali con le braccia. Ad ogni passaggio c’era gente sul promontorio che rimaneva col fiato sospeso per qualche secondo; dopo ogni manovra si alzava un applauso e un urlo liberatorio.
C’era della buona energia quel giorno. Poi ad un tratto si alzò il set di onde più grande del giorno, anzi della settimana: Eddie e Titus erano vicini, quasi uniti nel nome della loro famiglia e delle loro tradizioni. Cominciarono a remare con forza, convinti che quella era un onda che avrebbe fatto la differenza. Tutti i fotografi erano pronti per immortalare quel momento. Titus era leggermente più agile, più veloce nella remata e cosi fu. Si alzò in piedi su quel bestione ruggente di più di sei metri. Dal promontorio si levò un urlo di qualche donna locale; la sua posizione era perfetta, in armonia con la tavola e con la parete dell’onda.
Eddie era concentrato su quella corsa, si sforzava di vedere uscire Titus dal cavo dell’onda. Ma Titus non usciva e il pericolo, l’aria della tragedia si andava allargando nella baia di Waimea. Eddie sapeva che era il momento di agire e andò, eccome se andò.
Cadde però anche lui nel cavo dell’onda, che lo centrifugò per una cinquantina di metri: era rilassato come è giusto fare in quei momenti di panico.
E’ proprio il panico che fa perdere l’ossigeno necessario per mantenersi lucido nelle condizioni estreme.
Eddie lo sapeva bene, si era trovato mille volte in situazioni del genere. Era sul fondo del mare e il laccio che lo legava alla sua tavola, era ciò che lo legò senza possibilità di scelta alla morte. Si era impigliato a una roccia e non riusciva a tornare a galla. Ad un tratto sentì qualcosa poggiarsi sulla sua spalla. Qualcosa di caldo, di amichevole. Era la mano di Titus, suo cugino, compagno di mille avventure. Non morì almeno per quella volta e tutte la folla tirò un sospiro di sollievo.
“Eddie would go”, Eddie sarebbe andato, questo era il suo motto. E quel motto raggiunse anche la penisola italica dove il surf, nei primi anni novanta era ancora una realtà sbiadita.
Io e il Secco, amico di sempre, ci sentivamo estremamente vicini a una figura di questo tipo: competitiva, discreta, non certo da copertina, ma che al tempo stesso fosse lo specchio dei nostri valori e principi.
Forse pochi di noi bravi surfistelli di cavalloni italiani sapevano chi era 5 anni fa, ma noi due una volta saputo della tragedia ci eravamo informati, dispiaciuti tanto da inviare un telegramma di condoglianze alla lontana isola di Ohau.
Avevamo deciso di creare intorno all’immagine buona di quell’uomo un’idea e inizialmente non sapevamo che tipo di idea fosse.
Volevamo che le giovani leve del surf cominciassero ad apprezzare di più il lato soul di questo sport. Togliere dalla testa della gente immagini inquinate di ciò che era il surf.
La nostra vita non poteva essere come quella degli altri e lo ripetevamo tutti i giorni. Mai avremmo potuto sostenere una vita banale. Svegliarsi la mattina presto, radersi, scaldare la macchina e imboccare la strada per arrivare a lavoro. Poi, il bisogno di essere sempre a posto, con i capelli tagliati e la giacca, la cravatta: brividi di freddo attraversavano il corpo ogni volta che ci pensavo.
Insomma a ventitré anni vivevamo potenzialmente il nostro astratto futuro, fatto di lavori piacevoli, famiglie allegre e salutiste, di noncuranza della società e delle sue regole, delle sue convenzioni.
Le giornate per noi erano fatte di attese interminabili di fronte al mare di una buona mareggiata.
Erano le ore che passavamo dentro le macchine scarcassate e sempre senza benzina. Giravamo tutta la costa fino a sud e guardavamo la direzione del vento, il cielo pieno di nuvole. Ed il bello che il più delle volte tornavamo a casa senza nemmeno aver messo piede in acqua ma ugualmente felici di aver passato la giornata parlando e vivendo di solo surf. Ogni tanto organizzavamo delle feste Hawaiane.
Sempre con questo mito delle isole: magari gli hawaiani ci invidiano a noi per il campionato di calcio. Invidiavamo loro per le loro camicie e per il modo di vivere la vita a contatto con la natura.
Sta di fatto che ogni scusa era buona per indossare una camicia a fiori e sentirsi in un paese tropicale anche se poi non era altro che la bellissima costa romana.
Durante le feste c’era poi quello che aveva bevuto e fumato più degli altri. C’era chi non aveva bevuto per niente, chi amoreggiava con la donna che fiera del suo uomo “surfista” lo accarezzava come una reliquia. Insomma erano gli anni in cui si parlava di tutto e di niente ma di sicuro c’era il gruppo, gli amici, che ti permetteva di vivere coperto da una corteccia vitale che ti rendeva immune dalle difficoltà.
In quel periodo cominciammo a produrre magliette con loghi da noi inventati da noi. Andavamo alla ricerca del materiale più economico e delle stampe più semplici. La gente apprezzava questi due sognatori un po’ allucinati, ma allo stesso tempo la diffidenza delle nostre famiglie e delle momentanee donne rendeva tutto più difficile. Decidemmo di far diventare un progetto di due ragazzini in un realtà che ci responsabilizzasse e che facesse cadere tutte le perplessità.
La nostra illuminazione arrivò dopo un incontro alquanto molto strano. Una sera fummo invitati ad una festa al centro di Roma in un locale frequentato da appassionati di surf, snowboard e sport estremi: il Punto del rischio. Era l’inaugurazione e per l’occasione il locale era stato addobbato a dovere; c’erano tavole da surf appese sui muri, locandine, fotografie, posters e soprattutto c’era tutto il mondo dei surfisti romani che sembravano usciti da un film californiano. Tutto era molto “american”: era il periodo del boom della “tendenza” di questi sport d’oltreoceano e non avevo mai amato l’idea di far parte di quel movimento.
Scendendo dalle macchine e dopo aver cercato parcheggio per più di mezzora, notai che il gruppo non era al massimo della forma: il Secco sempre a rincorrere Sara, la ragazza più alternativa del gruppo che però non se lo cagava; Jacopo, pronto a specchiarsi ad ogni vetrina per verificare lo stato della sua acconciatura a lisca di pesce. Livio era sempre pronto a polemizzare sul fatto che tutti stessero sempre li a chiedergli sigarette gomme e soldi.
Diceva continuamente: ”Avete rotto i coglioni di vivere sulle mie spalle!”
Entrando nel locale, notai appeso alla porta d’entrata un cartello che annunciava per quella serata la presenza di alcuni personaggi famosi del mondo del surf tra cui il presidente di una nota marca di abbigliamento e alcuni atleti sponsorizzati dalla stessa.
Era uno spettacolo stare li a vedere tutta la gioventù romana concentrata a richiedere autografi a quelle star del surf: pensavo a come quello sport si stesse radicando nella cultura nostrana e agli effetti che avrebbe prodotto, soprattutto nelle nostre spiagge.
Quella sera indossavo una maglietta rossa con le maniche lunghe: era la mia maglietta preferita, l’avevo fatta stampare l’estate prima e riportava sulla schiena e sul petto il logo del nostro club: “Friends of Aikau”, in onore, naturalmente, del mitico Eddie.
Tra gli atleti li presenti ce ne erano alcuni provenienti dalle isole Hawaii e questo rendeva la serata molto più soul del normale. Mi facevo spazio tra la gente per scendere nel piano inferiore del locale. Mi girai di scatto verso i tavoli e notai che c’era una strana atmosfera, mi sentivo come gli occhi addosso.
In un tavolo, quello più numeroso, erano seduti personaggi che avevano fatto e facevano la storia del surf. Mi stavano guardando tutti, non capivo perché, non ero nemmeno vestito in modo così stravagante!.
“Hey man?” disse una voce alle mie spalle.
Mi girai di scatto e mi ritrovai davanti un armadio a tre ante a forma di uomo, con pelle marrone arrostita e capelli lunghi fino al culo. Aveva gli occhi spiritati, rossi come il fuoco e un alito degno delle migliori distillerie scozzesi.
“Yes?” risposi io con fare pacato e rilassato. Sentivo che c’erano delle strane vibrazioni tra me e quel tipo. Tirai fuori le mani dalle tasche dei miei jeans per sentirmi più sicuro, meno sulla difensiva.
Se avesse provato a tirarmi un cazzotto o una testata sarei stato più veloce a schivarli e avrei reagito con più rapidità.
“Perché hai messo questa maglietta?”, mi chiese col peggiore degli slang che avessi mai sentito: era un misto tra americano e australiano, parlato da un ubriacone sardo a denti stretti.
“Scusa?” gli risposi io, questa volta nel più corretto italiano che potessi parlare. L’attenzione del locale era tutta concentrata su di noi; la gente cominciava ad accalcarsi alle mie spalle, si formava il solito capannello: sembravano tutti emozionati di poter assistere ad una rissa dal vivo.
I miei amici ed in particolare Alberto, che sfoggiava un taglio militare, in quanto “scheggia” nell’esercito erano tutti pronti ad intervenire in caso di battaglia.
“Perché stai portando questa maglietta, amico? Sai chi sono io?”, ripetè il buzzurro hawaiano.
Ebbene si, avevo davanti Titus, leggendario ed eroico cugino del mitico Eddie Aikau.
Non lo ricordavo così scuro di carnagione e mai e poi mai avrei pensato di trovarmelo li davanti a Roma.
Titus, insieme a Ediie a Clyde Aikau, altro discendente della famiglia, erano il meglio, dico il meglio, in fatto di salvataggi in mare aperto.
Pensai che forse non era stata cosa giusta indossare una maglietta che riportava il nome del cugino morto: “Chissà come sarebbe stato vedere uno alle Hawaii col mio cognome cucito su una felpa?” pensavo tra me e me.
Sta di fatto che andavo tutto fiero della mia maglietta e tenevo il petto in fuori per far uscire un po’ di pettorali e la scritta “Eddie”.
Cominciai col dirgli che avevo sentito parlare della storia di Eddie, suo cugino e che mi era sembrato un buon esempio. Dissi che dietro quel marchio non c’era nessun messaggio blasfemo, ma che era solo un modo per essere portatore di un buon messaggio. Titus mi si avvicinò maggiormente, mentre il secco era ormai pronto ad intervenire ma invece di colpirmi, Titus mi abbracciò commosso come se avessi risvegliato in lui il più triste dei ricordi. Cominciò a parlare, a parlare e bere. Parlò della vita dell’uomo, dell’origine della vita, dell’energia cosmica inquinata dall’idiozia umana. A dire la verità non capivo tutto quello che mi stava dicendo ma la sua enfasi, il suo trasporto mi stavano schiaffeggiando, tanto erano forti.
C’era qualche cosa di diabolico e mistico dietro quell’uomo che mi parlava di Eddie, come se stesse parlando di qualche santone o di un vangelo della bibbia. Se gli avessi prestato la mia maglietta per asciugarsi il sudore avrei sicuramente ricevuto in regalo la “sacra sindone”.
Fu quella serata, quegli attimi così fuggenti, che mi spinsero a cogliere l’attimo, che finalmente era giunto. In pochi anni il marchio “Friends of Aikau” aveva conquistato il mercato dell’abbigliamento di surf dell’Italia centrale. Cominciavano ad arrivare ordini e richieste dalla svizzera. Gente da ogni parte della penisola conosceva il marchio e le ragioni per cui era stato creato. Tutto ciò non era stato fatto per fare i soldi, per speculare sulla nostra passione. Era come aver fatto dei soldi sulla religione e ciò non è proprio possibile, perché non si può vendere il proprio Io, le proprie idee, i propri valori.
Quello rappresentava per me lo spirito giusto nel fare le cose. Non doverle fare per un futuro guadagno, per realizzare un ricavo. I soldi che guadagnavamo erano sempre reinvestiti in altre promozioni o attrezzature varie ma la gente cominciava a ricredersi sullo spirito manageriale di questi due ragazzi e il rispetto intorno a noi cresceva ogni giorno.
Poi però il Secco un giorno mi disse che la sua vita non aveva più senso. Che non si riconosceva più in quello che stavamo facendo e decise quindi, di partire per l’isola di Ohau, nell’arcipelago delle Hawaii , dove cominciò a lavorare come meccanico per motori nautici.
Mi sentii abbandonato, un altro punto di riferimento nella mia si era vanificato in poche frazioni di secondo. Decisi comunque di continuare quello che avevo iniziato e tutto filò liscio come l’olio ed oltre ogni più rosea aspettativa.
Il Secco ogni tanto mi spediva delle E-mail dalle Hawaii dicendo che si trovava benissimo, diviso tra giornate memorabili di surf ed una donna locale che aveva conosciuto e di cui si era innamorato follemente. Lavorava nella officina e guadagnava il giusto per sopravvivere e girare l’isola: lo immaginavo sempre con i suoi baffoni alla Magnum P.I. e le sue camicie hawaiane. Lo sentivo felice, per nulla pentito di aver abbandonato la nostra società e i guadagni facili degli ultimi mesi. E questo non mi rendeva felice. Anzi, ancora una volta un senso di insoddisfazione regnava dentro di me e nuove.
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