Immagina di decidere finalmente di fare il grande passo, cambiare vita e trasferirti in un paradiso come Bali per inseguire un sogno e risvegliarti invece in un vero e proprio incubo. E’ quello che è successo a Umberto, emigrato a Bali appena pochi giorni prima del lockdown. Questa è la sua storia…
Per chi surfa, Bali rappresenta un po’ la Mecca del nostro amato sport da tavola. Un’isola paradisiaca del territorio indonesiano, interessata dalle correnti oceaniche che generano swell e spot attivi ogni giorno dell’anno. Personalmente, sognavo di trasferirmi a Bali, surfare ogni giorno e vivere le “vibes” di una cultura e di un popolo capace di lasciare indimenticabili ricordi nel cuore di chiunque si affacci a Bali per la prima volta. Le stesse “vibes” e le stesse onde capaci di indurci a comprare il biglietto d’aereo per l’Indonesia anno dopo anno.
Si dice che si vive una volta soltanto e che ogni lasciata è persa, così ho fatto il grande passo, rischiando tutto, e mi sono trasferito sulla tanto amata Isola degli Dei. Inutile raccontarvi di cosa volesse dire vivere a Bali fino ad un paio di mesi fa: svegliarsi con il sole che faceva capolino dietro alle tradizionali risaie, tingendo di un tenue ma bellissimo rosa il cielo mattutino, la tavola già pronta sullo scooter, l’incontrarsi con i soliti volti noti della line-up al parcheggio della spiaggia, le onde della prima sessione ed il pranzo al classico warung locale commentando le proprie ed altrui performance. Intorno a te, sorrisi (apparentemente) sinceri, la gentilezza delle persone locali, conversazioni leggere ed i programmi per la “sunset session” del pomeriggio stesso.
Un sogno così bello da farmi dubitare che quella che stessi vivendo fosse una esistenza reale, concreta e non solamente una proiezione della mente durante una lunga dormita in totale fase rem. Ma poi…
L’arrivo del Nyepi Day, o Giorno del Silenzio, ha cambiato drasticamente la vita a Bali. Esteso, infatti, forse per la prima volta nella storia, a due giorni consecutivi, il Nyepi Day è stato come la linea di demarcazione che ha traghettato Bali, in un bruciante scatto da zero a cento chilometri all’ora, da quella che era la vita normale allo stato di (apparente) totale lockdown, durante il quale è venuto purtroppo a galla il reale volto di questo luogo paradisiaco, con tutte le sue contraddizioni, la totale assenza di logica, la disinformazione generale, il razzismo e la xenofobia celate normalmente da sorrisi che impari a capire nel tempo essere solamente funzionali strumenti di lavoro. Niente di più.
In seguito, infatti, al Nyepi Day, con una assoluta mancanza di informazioni certe, Bali è stata messa sotto il regime di lockdown per prevenire una epidemia che, dato il sistema sanitario indonesiano, avrebbe rappresentato un disastro senza precedenti. E fino a questo punto il governo asiatico si è meritato un assoluto plauso per la tempestività di reazione che ha permesso appunto un capillare contenimento dei casi di Coronavirus. La conta ufficiale parla di appena mille casi registrati tra tutte le isole del territorio, con meno di duecento casi (di cui si contano appena 4 decessi) imputabili all’Isola degli Dei.
Ma a poco a poco, le misure restrittive, i continui nuovi regolamenti promulgati, modificati ed abrogati giorno dopo giorno, tutto ciò è entrato in quella zona grigia che è la burocrazia e la legge indonesiana, dove tutto e niente è permesso. E la stessa cosa è capitata alla pratica del surf. Soprattutto alla pratica del surf, oserei direi. E’ proprio il surf, infatti, ad essere uno degli argomenti più controversi, dibattuti, fonte di nette divisioni e contrasti.
Dopo il Nyepi Day, infatti, con i nuovi ordinamenti per il contenimento del virus, le spiagge dell’intera isola sono state sigillate. Ad accompagnare le spiagge sono stati prima i locali più grandi e famosi (Old Man’s, Finns Beach Club, La Brisa, Pretty Poison, La Favela, Single Fin, Omnia e tanti altri), seguiti a ruota da ristoranti, negozi, palestre, centri di yoga, intere aree e città. Questo accadeva nei primi giorni di aprile, durante i quali fu annunciato che le spiagge sarebbero rimaste in lockdown per circa un mese e avrebbero riaperto il 21 di aprile.
Ma settimana dopo settimana assistevamo a situazioni controverse: se i grossi locali sovra citati rimanevano e rimangono tutt’ora chiusi, la realtà dei fatti ci mostra però come la maggior parte dei negozi, dei caffè e dei ristoranti hanno continuato la propria attività commerciale, prendendo come unica precauzione quella di lasciare all’ingresso tutto il necessario per lavarsi adeguatamente le mani prima di entrare. Anche i supermercati non hanno subito restrizioni ed i mercati locali sono affollati come di consueto: zeppi di persone spalla a spalla l’una con l’altra. Addirittura nella piccola località turistica di Berawa, ai piedi di Canggu, le palestre di pesi, di crossfit e di muay thai hanno tenuto le porte aperte e la gente continua ad allenarsi, sudando fianco a fianco, utilizzando gli stessi strumenti senza utilizzare i guanti. Tutto ciò, infatti, sembra non infastidire affatto i Banjar, una sorta di corpo autonomo rispetto alla polizia ed al governo stesso, dotato apparentemente di pieni poteri, più simile ad una sorta di organizzazione paragovernativa autorizzata dal governo. Gli stessi Banjar che hanno messo nel mirino specialmente una categoria di persone: i surfisti “bule” (parola che in Bahasa significa “albino”, con la quale gli indonesiani si riferiscono in maniera velatamente dispregiativa ai turisti bianchi).
Nell’ultima settimana di aprile, infatti, abbiamo costantemente assistito a situazioni paradossali. A Kuta, ad esempio, il parcheggio per scooter sulla strada che divide Kuta Beach dal grande centro commerciale era affollato: il grande “mall” brulicante di persone e la spiaggia di fronte completamente deserta. Apparentemente Banjar, Pecalang e la polizia governativa ritengono impossibile la diffusione del virus all’interno di luoghi in cui il turista possa continuare a riempire le tasche della popolazione locale. La stessa cosa non si può dire invece quando si parla delle spiagge, ritenute alla stregua del nocciolo del reattore nucleare esploso a Chernobyl. Addirittura, proprio il giorno in cui questo articolo veniva scritto, ben dieci stranieri colpevoli di essere sgattaiolati dentro l’oceano per farsi una surfata sono stati arrestati e sono in attesa di essere rimpatriati.
Giusto, direte voi: le regole sono regole e come tali vanno rispettate. Eppure, questo discorso perde di significato quando vengono adottati costantemente due pesi e due misure, a seconda della nazionalità dei soggetti. Ad ognuno di noi pochi “Bule” rimasti a Bali, infatti, provando a parlare con i Pecalang di turno, cercando di convincerli a farci entrare in acqua alle 6 del mattino, è stato negato l’accesso garantito solamente ai locals. Perché questo? “Perché loro sono locals e Voi potreste infettarli”. Testuali parole sono state riferite al sottoscritto che vi scrive. Trattamento che, seppure in modo di verso, si ripete ovunque si entri a comprare anche una sola bottiglia d’acqua. Gli sguardi di pura diffidenza, di paura e quasi di disprezzo lanciateci dalla maggior parte della popolazione locale in questa situazione vanno al di là della semplice definizione di “fastidioso”. E la cosa diventa totalmente inaccettabile quando questo tipo di condotta viene non solamente adottata, ma sostanzialmente incoraggiata, dagli stessi agenti governativi.
Nel mentre, però, a vivere una grande situazione di disagio sono tutti coloro che lavorano o, meglio, lavoravano, nell’industria del surf, uno dei principali business dell’isola. Istruttori di surf con le tasche vuote costretti a svendere su Facebook le proprie tavole per comprare il riso, proprietari di warung sul lastrico, negozi di surfboards ed accessori costretti a vendere tavole come DHD, Native, Haydenshapes ed altri marchi quasi a metà prezzo pur di accaparrarsi qualche cliente e tirare avanti.
Sfortunatamente però, la riapertura delle spiagge è stata attualmente posticipata al 31 di maggio; eppure, voci sempre più insistenti parlano di almeno tre mesi di chiusura totale mentre altri ragazzi locali addirittura sono convinti che questa situazione potrebbe perpetuarsi per l’intero 2020. Uno scenario economicamente apocalittico per la maggior parte della popolazione che non solo si appoggia all’85% sulle entrate che derivano dal turismo, ma che soprattutto non hanno avuto sufficiente lungimiranza da tenersi dei risparmi necessari per far fronte a situazioni di emergenza come questa e che attualmente sono esposti ad un pericolo ben superiore che non a quello derivante dal Corona Virus.
Nel frattempo, alle luci del primo mattino e sul calar del sole, locals e “bule” – vista lo scenario alla “libera tutti” (o quasi) a cui si assiste al di fuori delle spiagge – continuano ad oltrepassare le barriere per tuffarsi tra le onde, consci che il tempo a disposizione per il divertimento avrà i minuti contati e che i rischi per cavalcare qualche onda sono tanti. Eppure, per combattere la paura che questo virus ha portato nelle vite della maggioranza di noi, anche poche onde al giorno rappresentano una sferzata di positività che al giorno d’oggi è il miglior vaccino possibile.
Testo e foto di Umberto M.
Una cosa è certa..dall’articolo non si respira l’amore per BALI…prima di dire che Bulè è un termine dispregiativo nei nostri confronti, sarebbe utile ricordarci la storia dell’Indonesia e di Bali in particolare, magari conoscere qualche famiglia locale per IMPARARE da chi vive da sempre quel paradiso, che cosa sia Bali, quale sia la sua filosofia di vita, l’ENORME RISPETTO per l’altro, IL SORRISO, l’ACCOGLIENZA, la SAGGEZZA che la caratterizza.
Prima di parlare di falsità, riflettiamo sulle nostre aspettative e sui nostri bisogni.
A Bali trovi tutto fuorché la falsità.
Personalmente ho scritto molto su Bali,collaboro con scuole per bambini speciali, da anni come surfista e psicologo vivo molte sfaccettature di Bali ed ogni volta torno a casa con un bagaglio prezioso nel cuore e nella mente.
Fa male leggere queste parole su Bali per questo d’accordo con Alexioa, penso che un articolo non debba solo riportare un’esperienza soggettiva ma abbia il grande potere di diffondere idee…in questo caso per chi conosce Bali davvero, poco se non per niente condivisibili.
In un’epoca dove tutti possono permettersi di dire tutto ed il contrario di tutto, di poter idolatrare e distruggere, di creare e diffondere panico, inviterei ognuno di noi all’utilizzo del vecchio e caro diario, soprattutto quando abbiamo bisogno di “sfogarci” e lasciare agli articoli il loro reale valore di divulgazione di verità e cultura…per fare questo però servirebbero due cose: 1)l’essere esperti per poter scrivere di qualcosa ma soprattutto 2) l’umiltà per chiedersi se lo siamo a tal punto da inviare un articolo.
Bali Bagus❤️
Antonio Rinaldi
quante inesattezze e quanta poca professionalita’ nel postare certi articoli!
Umberto ha raccontato la sua esperienza, se ci sono inesattezze puoi rilevarle, altrimenti sembra più superficiale e inesatto il tuo commento…